Il lato umano delle cose

Studio Museo Felice Casorati

Pavarolo

7 maggio – 26 giugno 2022

a cura di Angela Madesani

Ho conosciuto Enzo Obiso molti anni fa, è stato nostro tramite una persona alla quale devo molto e che da molti anni non è più. Poi come accade ci siamo persi di vista. Un paio di anni fa le sue foto erano in una mostra per la quale ho scritto un testo, a Milano, e questa estate ci siamo rincontrati a Torino nel suo  studio . Così è tornata ad essere fra noi un’intesa fatta di pensieri, di gusti, di scelte comuni. 

Durante la visita mi ha mostrato La Casa di Francesco,la cartella, realizzata insieme a  Guido Costa per le edizioni della sua galleria, dedicata, appunto, a Francesco Casorati, poco dopo la sua scomparsa. La cartella è un omaggio alla persona a all’ artista, ultimo testimone di quello spazio di Pavarolo, che è stato acquistato da suo padre Felice e da sua madre, la pittrice inglese Daphne Maugham. 

Quella cartella, quelle foto raffinate, quegli ambienti carichi di dettagli, riescono a rendere il senso di una storia della storia dell’arte.

Per me, sebbene io non sia mai stata nello studio, è stata un’emozione: ho imparato a conoscere il lavoro di Felice Casorati durante i miei studi universitari con una delle sue massime esperte, che è stata mia docente, Maria Mimita Lamberti.

Con le foto di Obiso non ci troviamo di fronte a panoramiche dello studio, a foto di interni, piuttosto a sguardi privati, alle forbici antiche poste in tutta la loro maestà su un tavolo da lavoro, agli strumenti ordinati per l’incisione, al mestolo e alle schiumarole bianchi, appesi in cucina, a uno sgabello con sopra una scatola di legno e ancora un pacchetto di sigari toscanelli. Tracce di vissuto di una famiglia intellettuale della Torino del XX secolo, Felice, scomparso nel 1963, Daphne nel 1982 e Francesco, qualche anno fa. Lo scorcio di un corridoio. La casa con il giardino, è come se fosse costituita da una serie di stratificazioni fisiche, temporali, che l’occhio acuto del fotografo coglie in tutta la sua complessità. Ognuno dei protagonisti di questa storia ha aggiunto qualcosa, ma nessuno ha tolto nulla. 

La volontà, riuscita, di Obiso è quello di cogliere l’anima dei fenomeni nella loro accezione di accadimenti, che ci riporta le sensazioni, gli odori. 

«Negli ultimi anni vedo di più le cose, senza entrare nell’ambito di una sterile nostalgia, che riesco ad annientare per giungere ad altro. Vedo certi oggetti come perdita, una perdita che catturo e che porto dentro di me. A volte mi impossesso di quanto vedo anche fisicamente, lo porto con me, continuo ad osservarlo. Una condizione che non si è potuta verificare a Pavarolo. All’inizio mi sono trovato in quel luogo per fare un lavoro che avevo già pensato ma poi, per forza, quello è un posto in cui ovunque ti giri l’atmosfera è più forte di qualsiasi progetto e diviene dominante». Ogni oggetto ha convogliato il tempo, lo ha registrato, è divenuto molto altro rispetto alla sua funzione originaria, è presenza e perdita al tempo stesso per divenire altro da sé carico di rimandi più o meno eloquenti. Sono attori che recitano su una scena assai popolosa. Oggetti che rappresentano la realtà tangibile in un mondo come quello nel quale stiamo vivendo in cui è la virtualità, la non cosalità a fare da protagonista. 

Un altro lavoro traccia la memoria dello studio di Enzo Obiso, lasciato nel 2018. Protagonisti sono sempre gli oggetti: un vaso di peperoncini, un tavolo con un fermacapelli, delle piume inserite nel muro. Macchie dettagli, colti con la coda dell’occhio, che hanno fatto parte della sua quotidianità per un certo numero di anni. Sono fotografie a colori, realizzate nel corso del tempo, tutto è pacato, garbato proprio come Enzo. 

E quindi le altre immagini sempre cariche di rimandi, di storie, di memoria personale e dei luoghi, che si tratti di Cuba, di Gubbio o di un paesaggio innevato posto su un paravento che richiama l’antica cultura giapponese. Ma anche paesaggi italiani, talvolta notturni, colti nella loro semplicità strutturale. La fotografia di Obiso è priva di trucchi, di qualsivoglia sensazionalismo. Le sue immagini esigono il tempo dell’ascolto, dell’osservazione ponderata. In esse non vi sono pregiudiziali di matrice tecnica, tutto è legato allo scopo da raggiungere. Il virtuosismo non gli appartiene. Lo strumento fotografico è ciò che gli permette di raggiungere il risultato auspicato.

Nel lavoro su Cuba, Obiso ha fotografato le automobili parcheggiate per strada, sono oggetti esagerati, coloratissimi, se a un primo sguardo la scelta potrebbe apparire banale, la faccenda si rivela assai diversa; il tutto è frutto di un’osservazione ossessiva, per cogliere lo spirito del luogo, per farne conoscenza. Altre 50 fotografie hanno per oggetto Malecón, il lungomare de L’Habana, lungo alcuni chilometri, costruito con pietre diverse. Un lungo muro fatto di materiali poveri di differente provenienza, che mutano l’aspetto e il colore di insieme. Per accompagnare il lavoro l’autore ha realizzato un leporello, in cui lo spazio scorre sotto gli occhi di chi guarda. Ancora una volta il senso del lavoro è l’osservazione, che ci consente di cogliere le differenze. L’inquadratura è sempre la stessa, ogni foto è collegata all’altra attraverso il peso dello sguardo. 

Il dettaglio, al centro della sua riflessione, può essere osservato per ore, gli oggetti sono eloquenti, così Giorgio Morandi, ma anche Franco Vimercati. È la poesia dei minimi della quale parlava Roberto Longhi. Le piccole cose, che popolano la nostra esistenza. 

Altre immagini, questa volta in bianco e nero sono dedicate al doppio. Anche qui pare di trovarsi di fronte a una silente risposta alla solitudine social del nostro tempo, quella dei selfie e degli amici di Facebook. È una penetrazione che va ben oltre la superfice, è un affondo per comprendere il senso dei fenomeni. È il dialogo con l’altro da sé, il confronto, sempre attraverso immagini senza tempo, non per forza collocate e collocabili in uno spazio connotato, in cui aleggia un senso, uno spirito poetico. 

Così nelle foto di nudo, a colori che rimandano a certe atmosfere della fotografia di Paul Outerbridge jr: in esse è una delicatezza priva di qualsiasi rimando erotico sebbene i corpi si mostrino nella loro inequivocabile bellezza, in cui lo sfondo, di colore pastello, esalta la vita delle forme. 

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